27 luglio 2010

I fullereni nello spazio

Spazio/ Scoperti fullereni nelle nebulose planetarie
Complesse molecole formate da atomi di carbonio
I fullereni sono molecole complesse formate da soli atomi di carbonio disposti sui vertici di una struttura tridimensionale composta da facce a forma di esagono o pentagono: un po' come una pallone da calcio. Il primo aggregato di fullereni, composto da sessanta atomi, venne sintetizzato nel 1985 da Robert Curl, Richard Smalley e Harold Kroto, che per questo vinsero il premio Nobel per la chimica del 1996. Ora, per la prima volta un gruppo di astronomi dell'Università del Western Ontario è riuscito a individuare nello spazio la presenza di fullereni, analizzando lo spettro infrarosso della luce proveniente dalla nebulosa planetaria Tc 1, che si trova a 6.500 anni luce da noi. Le nebulose planetarie sono resti di stelle come il Sole che perdono i loro strati esterni di gas e polveri in seguito all'invecchiamento della stella. La scoperta dei fullereni nelle nubi di gas è stata resa nota da un articolo su "Science". Jan Cami, il primo firmatario, ha detto che la scoperta è stata resa possibile dalle osservazioni del telescopio spaziale Spitzer. Si tratta di un risultato importante perché i fullereni hanno proprietà uniche che li pongono al centro di complesse reazione chimice e fisiche.

Roma 26 luglio - Apcom

06 agosto 2007

A Lingotto con Roald Hoffmann

Il Sole 24 ore n. 213
Domenica 5 Agosto 2007
Scienza e filosofia pp. 40

La libertà della ricerca

A Torino una pièce teatrale scritta dal premio Nobel Roald Hoffmann fa riflettere su scienza ed etica, e va controcorrente

di Sylvie Coyaud

Al Lingotto si tiene da oggi a venerdì prossimo il quarantunesimo congresso dell'Unione internazion­ale di chimica pura e applica­ta sul tema delle frontiere di quella pura e del contributo di quella applicata a «salute, amb­iente e patrimonio culturale». Circa 5mila partecipanti, smistati in dieci sessioni parallele, seguiranno un totale di 230 presentazioni, per fare il punto sulle novità che, dal programma, annunciano un futur­o chimico-bio-nano-tech, bio­sintetico e biomimetico in tutt­i i settori, dalla farmacologia all'informatica, all'energia. Una mostra della Chemical Heritage Foundation di Phila­delphia ricorderà invece la strada percorsa nell'ultimo mezzo millennio, con una selezione della collezione Neville che è riuscita ad acquistare nel 2004: in tutto 6mila volumi sto­rici, tra cui testi di alchimia di cui esiste un unico esemplare.
Il congresso viene inaugura­to alle 16 da Roald Hoffmann, Nobel 1981 e ogni tanto nostro collaboratore, con un interven­to su scienza ed etica seguito dal­la rappresentazione della sua ul­tima pièce Should’ve (traduzione italiana Se si può, si deve?, Di Renzo Editore, Roma). Diversa­mente da Ossigeno, l'allegra commedia degli equivoci scrit­ta con Carl Djerassi, su chi di La­voisier, Priestley e Scheele aves­se davvero scoperto il gas, que­sta è una successione di ventiset­te scene brevi e tese, per tre atto­ri. L'autore riassume così la tra­ma: «Si apre con il suicidio di Friedrich Wertheim, un chimi­co d'origine tedesca, che si senti­va colpevole di aver consegnato ai terroristi un metodo semplice per creare una neurotossina. Le circostanze e i motivi del suo gesto travolgono la vita della figlia Katie, una biologa molecolare con idee molto diverse sulla re­sponsabilità sociale degli scien­ziati, del suo compagno Stefan, un artista concettuale, e di Julia, la seconda moglie, separata da tempo. Cercano di resistere alla potenza trasformatrice della morte e ne sono incapaci, dila­niati dai ricordi, dal passato che essa fa affiorare portando a nuo­vi legami tra i personaggi». Ka­tie vuole ricreare in laboratorio il virus dell’influenza spagnola che uccise milioni di persone al­la fine della Prima guerra mon­diale, Stefan prepara un'installazione provocatoria che prende di mira la religione cattolica. Entrambi difendono la propria scelta con argomenti razionali - è un'occasione imperdibile, pro­mette fama e carriera - senza ac­cettare limiti né alla ricerca della conoscenza né alla libertà di espressione. È Julia, sentimentale, priva di ambizioni, a chiedere «se si può, si deve?» Alla fine, le risposte sono più di una e quella decisiva è lasciata all'interpreta­zione dello spettatore. Hoff­mann però non ha dubbi. «An­che se molti miei colleghi non saranno d'accordo, ritengo che certe ricerche non si devono fa­re», diceva in un'intervista su «Chemistry International» di maggio. Pensa che un codice eti­co della ricerca sia necessario perché «gli scienziati non nasco­no etici e la scienza non è etica­mente neutrale». D'altronde, nella pièce Stefan «crede alla fal­lacia romantica secondo cui gli artisti facciano soltanto il be­ne». Cita opere stupende al ser­vizio di ideologie mostruose e molecole bifronti, stupende anch’esse, che il contesto, l'inten­zione, o l’ignoranza trasforma­no da benefiche in nocive. La soluzione non sta nell'in­segnare una filosofia morale ta­gliata a misura di ricercatore, ag­giunge Hoffmann, ma nel coin­volgere scienziati e aspiranti ta­li in gruppi di discussione su ca­si reali, in una discussione «da proseguire per tutta la vita». Adesso che ha appena compiu­to settant' anni e va in pensione, la prosegue non più con il grup­po degli studenti che si ritrova­vano nel suo ufficio immenso e caotico all’università Cornell, ma a teatro. Ha assistito alle ripetizioni di Should’ve a Edmon­ton, in Canada, mentre il regista Stephen Heatley analizzava ogni frase di quel testo scarno, costruito come un gioco di sim­metrie, e chiedeva agli attori ­Robert Clinton, Maralyn Ryan e Michele Brown - di immagina­re quello che accadeva ai perso­naggi tra una scena e l'altra. Affa­scinato dalle storie che ne nasce­vano, aveva ascoltato in silen­zio, era «rimasto a imparare, scoprire ambiguità, profondità che non sospettavo», A Torino invece, ci sarà un simposio po­meridiano, «Beyond Should’ve: Ethical Issues in Science and Education», nel quale dibatterà con i colleghi «soprattutto se non la pensano come me. - dice - È riservato ai congressisti, ma lo spettacolo è aperto a tutti, so­prattutto a chi legge le vostre pa­gine di scienza e filosofia,imma­gino». I biglietti, gratuiti, si pos­sono ancora ritirare alla Vetrina per Torino di piazza San Carlo e all’Auditorium di Piazza Solferino.

Roald Hoffmann – De si può, si deve? - Di Renzo Editore

03 agosto 2007

La scienza e il vuoto

L’Espresso
Anno LIII – Numero 31
03 Agosto 2007
sezione: Cultura pp. 109

Quanto pesa il vuoto
di Piergiorgio Odifreddi

Per la maggior parte di noi, il vuoto è un luogo dove non c’è niente. Per i fisici quantistici, invece, il vuoto è un luogo dove c'è di tutto, come ci canta e ci suona Frank Wilczek, premio Nobel per la fisica del 2004, in un bell’assolo su "La musica del vuoto" (Di Renzo Editore, pp. 89, euro 12). La domanda fondamentale alla quale lo scienziato risponde riguarda l'origine della materia ordinaria, che è naturalmente l'esatto contrario del vuoto: la sua sorprendente risposta è che essa, per il 90 per cento, emerge da una teoria idealizzata i cui ingredienti (quark e gluoni) sono completamente senza massa! A scanso di equivoci, questa emergenza della materia dal vuoto non è affatto una creazione dal nulla: con buona pace dei filosofi, infatti, le due parole non sono per niente sinonime. Più precisamente, la massa di particelle pesanti quali il protone e il neutrone si crea da energia pura secondo la formula di Einstein e le regole della Qcd, la cromodinamica quantistica che lo stesso Wilczek ha sviluppato da studente insieme al suo professore David Gross*, vincitore con lui del premio Nobel. Come invece si formi la massa di particelle leggere quali l'elettrone è ancora un mistero, che attende per la sua soluzione il passo successivo alla Qcd. Nel frattempo, comunque, questa ha già permesso addirittura di riprodurre in laboratorio le condizioni del Big Bang, in eventi esplosivi che provocano palle di fuoco ad altissima temperatura che si espandono in maniera simile all'universo primordiale, lasciando tracce come quelle fotografate sulla copertina del libro, che ci dà un'idea di come dev’essere stato il fatidico momento del fiat lux.

David Gross – L’universo affascinante – Di Renzo Editore
Frank Wilczek – La musica del vuoto – Di Renzo Editore

16 giugno 2007

Scienza a Genova

A Genova è iniziato il Festival della Scienza e già si pensa alla nuova edizione con ospiti d'eccezione come:

Marc Abrahams, Zohra Ben Lakhdar, Paul Davies, Mario De Caro, Francesco De Martini, Tullio De Mauro, Freeman Dyson, John Dupré, Vittorio Gallese, Louis Godart, Marc Hauser, Simon Ings, Padre Thomas Keating, Julian Paul Keenan, Almamy Konté, Lawrence Krauss, Frans Lanting, Jean-Marc Lévy-Leblond, Pierluigi Luisi, Benoit Mandelbrot, David McArthur, David M. Mbora, Michel Morange, Aldo Naouri, M. Xavier North, Leonard Orban, Hilary Putnam, Matthieu Ricard, Gian Enrico Rusconi, Sandra Savaglio, Salvatore Settis, Jack Steinberger, Ian Tattersall, Alex Vilenkin e in video conferenza ci sarà Harold Khroto mentre Corrado Augias porterà il suo spettacolo su Giordano Bruno.

Questi autori fanno parte della Collana I Dialoghi

Per i libri di Giordano Bruno pubblicati da Di Renzo Editore visita www.clavismagna.info

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20 maggio 2007

Piero Bianucci e Roald Hoffmann

Tutto Libri, la Stampa, sabato 5 maggio 2007, pag. VIII
Ma la formula della verità non c'è
di Piero Bianucci
La scienza è un'isola che si espande nell'oceano dell'ignoto. La sua superficie cresce continuamente, ma insieme si allunga la linea della costa, cioè il confine con il mistero. Non basta. Forse l'isola della scienza è un atollo: la sua espansione comporta l'allargamento del mare interno . Cioè l'incertezza sui fondamenti filosofici del sapere. Einstein provocatoriamente si domandava se la Luna esistesse anche quando non la guardiamo e dava per scontata la risposta affermativa. Oggi quel sano realismo appare meno sano. La scienza studia la realtà o i nostri modelli mentali? Dove passa il confine tra realtà e conoscenza? Il tema della Fiera del Libro 2007, visto con la lente della scienza, si offre a molti approcci. Scegliamone sette e partiamo dal più concreto.
Confini di mercato. Con 10 milioni di copie, Dal big bang ai buchi neri di Stephen Hawking (Bantam Press 1988, edito in Italia da Rizzoli, ora nella Bur) segna il confine del maggior best seller scientifico. Riflessione e viatico per proseguire la lettura: il libro più venduto spesso è il meno compreso.
Confini superati. Thomas Kuhn, filosofo della scienza, ha introdotto la distinzione tra «scienza rivoluzionaria» e «scienza normale». La prima supera i confini acquisiti e instaura paradigmi nuovi spazzando via le concezioni dominanti. È successo quando Copernico tolse la Terra dal centro dell'universo o Einstein la teoria della relatività. È successo con la meccanica dei quanti e con la doppia elica del Dna. Tra le fasi rivoluzionarie si inseriscono ricerche di «scienza normale» entro il paradigma comunemente accettato, fino a quando affiora qualche punto debole che porta alla crisi e apre la via al paradigma successivo. Il libro-cardine di Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, risale al 1962. In Italia arriva con Einaudi 17 anni dopo. Ancora oggi è una bussola per orientarsi nella storia della scienza.
Confini come limite. Solo una scienza ingenua può aspirare alla Verità (a parte la matematica, che però si muove tra concetti da essa stessa creati, in un mondo tutto suo). Nel metodo scientifico - osservazione, ipotesi, esperimento l'obiettivo non è la Verità ma la verificabilità. La corrente filosofica dell'empirismo logico distingue poi tra verificabilità forte, capace di asserzioni universali, e verificabilità debole, riferita a fatti empirici ma tale da consentire la previsione di altri fenomeni.Anche questo criterio però è sembrato troppo muscolare a Karl Popper, che al principio di verificabilità ha sostituito il principio di falsificazione: una tesi scientifica è tale solo se si può provare che è falsa. In sostanza, è impossibile arrivare a conclusioni di valore universale partendo da un numero finito - per quanto grande - di conferme particolari, mentre una sola smentita è sufficiente a dimostrarne la falsità. La logica della scoperta scientifica, testo base del pensiero di Popper, portato in Italia dall'editore Einaudi, risale al 1934. Lo stesso anno in cui il matematico Bruno de Finetti lavora al saggio L'invenzione della verità, sorprendente inedito pubblicato pochi mesi fa da Raffaello Cortina con una introduzione di Giulio Giorello. Da allora la filosofia della scienza ha fatto molta strada. Ma non è detto che sia andata più lontano.
Confini raggiunti. Pur con tutta la cautela di Kuhn e di Popper, la scienza vanta una lunga serie di confini raggiunti. Galilei e Keplero hanno integrato Copernico, Newton ha dato pilastri matematici alla visione copernicana, Einstein ha incluso la concezione di Newton come un caso particolare nella teoria della relatività. Su un altro fronte, Darwin ha fondato l'evoluzione biologica: integrazioni e precisazioni venute in tempi recenti non fanno che rendere ancora più potente l'intuizione del grande naturalista inglese. Rimangono dunque da leggere capolavori del pensiero (e spesso anche della scrittura) come il Dialogo dei massimi sistemi di Galilei, L'origine delle specie di Darwin e l'esposizione divulgativa della relatività scritta dallo stesso Einstein.
Confini cancellati. Fisica nucleare e cosmologia hanno abolito il confine tra estremamente piccolo ed estremamente grande. Non si può capire l'universo - la sua nascita, l'espansione, il destino finale - senza capire le particelle elementari. Per convincersene basta leggere La musica del Big Bang di Amedeo Balbi, appena uscito da Springer. Balbi ha lavorato a Berkeley con George Smoot (Nobel 2006) e prepara la missione spaziale europea «Planck» che darà gli ultimi ritocchi al quadro delle origini cosmiche.
Confini dell'ignoto. L'universo osservato è solo il 5 per cento di ciò che esiste: da pochi anni gli scienziati sanno che il resto è formato da materia ed energia oscure. L'ultima sfida è comprenderne la natura. Siamo sulla battigia dell'isola, sull’attuale confine dell'ignoto. Ce lo spiegano tre libri affascinanti: L'universo strano di Tom Siegfried (Dedalo), La teoria del quasi tutto di Robert Oerter (Codice) e Oltre l'apparenza del mondo di Stephen Webb (Bollati Boringhieri).
Confini etici. Prima la fisica, poi la chimica e la biologia hanno messo gli scienziati di fronte a responsabilità enormi. Distruggere la Terra e manipolare la vita oggi sono cose a portata di mano. La frontiera dell'etica incrocia quella della conoscenza. Sarà il confronto culturale dei prossimi anni. Molti ricercatori (non tutti) lo sanno. Di Roald Hoffmann, premio Nobel per la chimica, la Di Renzo Editore ha appena pubblicato Se si può, si deve?, testo teatrale che discute la responsabilità degli scienziati. È la storia di un chimico che si uccide dopo aver appreso che un gruppo di terroristi ha utilizzato una neurotossina di sua invenzione. Nel 1962 Dürrenmatt ci presentava il senso di colpa dei fisici ideatori della bomba atomica. Ora entrano in scena chimici, biologi, genetisti. I confini tra epica e scienza sono i più mobili.

06 maggio 2007

Le molecole dei viventi



Max Ferdinand Perutz
Le molecole dei viventi
Presentazione di Alfonso Maria Liquori


Pagine: 96 -

Prezzo: € 11.00

ISBN: 8883231813 -

Anno di pubblicazione: 1998

2° edizione 2007


DI RENZO EDITORE

Il racconto che l’Autore, Premio Nobel per la chimica nel 1962 insieme a John Kendrew, fa della sua gioventù, le riflessioni sullo sviluppo degli studi chimico-biologici e il grande tema delle radici profonde dell’esistenza s’intrecciano armoniosamente in tre linee narrative e costituiscono la magia di questo piccolo volume. Ma quello che più avvince è il sentimento di umana simpatia con cui Perutz considera gli uomini di scienza che, come lui, intesero la loro attività alla stregua di un impegno politico, civile, morale volto alla difesa dei valori della cultura, della libertà e della giustizia.
Max Ferdinand Perutz è nato a Vienna nel 1914 ed è morto 2002 a Cambridge, dove si era trasferito nel 1936. Svelando l'architettura e il meccanismo d'azione dell'emoglobina e ponendo così le basi della biologia molecolare, ha avuto un'influenza profonda sulla medicina.

14 aprile 2007

Roald Hoffmann a teatro


Roald Hoffmann
Se si può, si deve?

Pagine: 72 - Prezzo: € 10.00
ISBN: 8883231791 - Anno di pubblicazione: 2007

DI RENZO EDITORE

In questa pièce teatrale, Roald Hoffmann riflette sulle responsabilità sociali di scienziati e artisti. Friedrich Wertheim, chimico di origine tedesca, si toglie la vita dopo aver scoperto che un gruppo di terroristi ha utilizzato una neurotossina di sua invenzione per commettere un genocidio. Le circostanze e le ragioni della sua morte sconvolgono profondamente la vita di tre persone a lui vicine: sua figlia Katie, anche lei una scienziata, ma con idee molto diverse sulle proprie responsabilità; il suo partner, Stefan, un artista concettuale e la seconda (ed ex) moglie Julia.
In 26 scene, rapide e frammentate, i tre personaggi s’interrogano sulle ragioni del suicidio, scoprendo scenari inaspettati. Divisi dai ricordi e da un passato segnato dalla morte, i tre cercheranno di resistere alle trasformazioni che l’evento porta con sé, finendo col modificare i rapporti reciproci.
Roald Hoffmann, chimico statunitense di origine polacca, ha studiato alla Columbia University e a Harvard. Nel 1962 ha sviluppato insieme a Robert Woodward le regole che spiegano alcuni meccanismi di reazione, per le quali ha ricevuto il Premio Nobel nel 1981. Attualmente insegna alla Cornell University di New York, dove si interessa di proprietà e comportamenti di sostanze organiche e inorganiche e dei materiali. Da sempre impegnato nella divulgazione scientifica, è anche autore di numerose opere di poesia e di teatro.

02 marzo 2007

In ricordo di Max Perutz

Ho incontrato Max Perutz a Cambridge, dove lavorava, nel 1996.
Rammento che quando chiesi alla centralinista dell’Università di Cambridge, se poteva avvisare Perutz del mio arrivo, lei mi rispose con aria serafica che non sapeva chi fosse. Ma come – mi sono detto – un premio Nobel e non sa chi sia? Probabilmente, a Cambridge, ne hanno troppi di premi Nobel per ricordarseli tutti! Comunque, chiarito l’inconveniente grazie al pratico uso di una rubrica, nella quale alla lettera “P” compariva anche Max Perutz, quello che mi vidi venire incontro – a passo spedito e con un sorriso accogliente – era un uomo sugli ottanta, molto magro e altrettanto vispo.
Ci fermammo a parlare proprio lì, davanti alla centralinista, senza troppi convenevoli, come due amici che si conoscono da sempre. Un atteggiamento, questo, piuttosto diffuso tra gli scienziati, soprattutto se anglosassoni: ti parlano come se fossi uno di loro, del loro gruppo. E mentre eravamo lì a conversare, ecco che mi scivola un foglio per terra. Faccio per piegarmi, ma lui – ben più prontamente – l’ha già raccolto e me lo porge, sempre sorridendo. Poi mi invita a salire nel suo ufficio: rigorosamente a piedi e, com’era prevedibile, con il sottoscritto che si affanna per tenere il passo.
Se l’inconsapevolezza della centralinista mi aveva stupito, ancor di più rimasi sorpreso nel vedere il suo ufficio: una stanza piccolissima, con uno scaffale pericolosamente traboccante di libri, un paio di armadi, un lavandino, burette e becker sparsi ovunque. Insomma, una stanza tutt’altro che curata. Accanto alla finestra, c’erano due piccoli vasi, con dentro delle piante grasse. Probabilmente le uniche forme viventi capaci di resistere 24 ore, ogni giorno, in quella stanza. Poi c’era qualcosa, ma non ricordo di che genere, appeso al muro.
Ad un certo punto, Max mi chiese se gradivo un tè, di quelli all'inglese, ci tenne a specificare. E io accettai ben volentieri, sia per la cortesia, sia perché in giro non si vedevano teiere o cose simili e quindi eravamo costretti a uscire… Avevo davvero bisogno d’aria! E invece, lui prese un becker, ci versò dentro dell'acqua e lo mise a scaldare. Appena pronto il tè, vi aggiunse del latte, salvo poi accorgersi che era guasto e allora niente tè.
Quando riprendemmo la nostra conversazione cominciai anche a sentirmi a mio agio in quella ristretta confusione. Ma credo sia stato il suono della sua voce a farmi dimenticare quello che c’era intorno. Restammo almeno quattro ore a parlare e scambiarci idee sul senso della scienza, mentre con un piccolo registratore mi accertavo che nessuna di quelle preziose parole andasse persa.
Avevo già intervistato altri personaggi di rilievo, ma ammetto che attorno a lui – forse per quel suo portamento very english e al tempo stesso molto informale – c’era quasi un’aura magica. Adesso cominciavo a capire perché tutti parlavano bene del Cavendish – il suo laboratorio – semplicemente perché Perutz era un grande trascinatore, sia sul piano umano che scientifico. È stata per me una fortuna e una bellissima esperienza incontrarlo e devo di questo ringraziare il mio ex-professore di chimica-fisica all’università, Alfonso Maria Liquori, che in gioventù aveva anch’egli trascorso molto tempo al Cavendish, lavorando fianco a fianco con Perutz. E adesso, a trovarmelo davanti, capivo finalmente tutta l’ammirazione che Liquori mi aveva trasmesso.
Fra le tante cose di cui parlammo, gli chiesi anche se aveva mai avuto modo di collaborare con qualche struttura o laboratorio italiano. Mi rispose, quasi con una sottile sfumatura di rammarico, dicendo che aveva collaborato solo con singoli scienziati italiani – quelli che erano venuti a lavorare da lui, nel suo laboratorio – e che dalle loro bocche ne aveva sentite di cotte e di crude circa la situazione scientifica del nostro paese. Era buffo e al contempo tragico sentirlo parlare di menti eccellenti, di veri talenti sprecati, perché legati mani e piedi da una sciocca burocrazia, se non addirittura ostacolati dagli stessi cattedratici: “Si chiamano baroni, vero?”, chiese a conferma, pronunciando la parola in uno strano italiano che tuttavia non ne cambiava il senso: i baroni sono quelli che, una volta fatta carriera, s’impegnano per non farla fare agli altri. “È un vero peccato”, continuò, “che un giovane di talento e buona volontà debba vedersela con simili ostacoli: tempo e risorse negati alla ricerca e alla scienza”. Disse anche che non gli piaceva l’atteggiamento tipico del professore universitario italiano, che si contorna di amici non scientificamente validi, ma politicamente influenti. “Scienza e politica non dovrebbero entrare troppo in intimità”, disse.
Infine, quasi a voler dare il colpo di grazia, mi raccontò di quando aveva accolto nel suo laboratorio il giovane Watson – poi Nobel, insieme a Crick, per la scoperta della struttura del DNA – lasciandogli carta bianca sul genere di esperimenti da condurre, anche se li avevano preventivamente concordati, e sulle eventuali pubblicazioni. Watson ha potuto così pubblicare a proprio nome l’articolo che lo ha portato al premio Nobel. Figuriamoci se in Italia glielo avrebbero lasciato fare!
Mi fece alcuni nomi di scienziati italiani che stimava molto, i più noti sul piano internazionale, come Rita Levi Montalcini e Carlo Rubbia, ma ci tenne a precisare che non avrebbero mai ottenuto il Nobel se fossero rimasti a lavorare in Italia.
Dopo quella prima volta, ci siamo rivisti ancora. Ogni tanto passavo da Cambridge, sempre in cerca di talentuosi scienziati da inserire nella mia collana, e non mancavo mai di fargli visita. Fu in una di queste occasioni che mi presentò il figlio di Enrico Fermi, Giulio, che all’epoca dirigeva un laboratorio accanto al suo e insieme collaboravano ad alcune ricerche. Mi disse: “Vedi, lui è un italiano che merita un libro”, alludendo al fatto che avrei potuto inserirlo nella collana “I Dialoghi”, dove avevo già pubblicato l’intervista a Perutz. Purtroppo, di lì a poco, Giulio Fermi morì, prima che potessi intervistarlo per il libro.
Di Perutz, anche se dopo che è scomparso, continuo ad avere nitida nella mente la figura di un uomo estremamente serio – dal punto di vista professionale – ma felice come un bambino per aver potuto fare quanto si era prefisso fin da piccolo. Perché il suo era stato un sogno precoce: la scienza, sempre e ad ogni costo.
Emanava consapevolezza del prestigio raggiunto, ma una consapevolezza che non si traduceva in arroganza, bensì nel desiderio di far progredire la scienza, e con essa i giovani scienziati, ancora e ancora e ancora…

Sante Di Renzo
www.santedirenzo.it
20.02.2007
Il libro pubblicato con la Di Renzo Editore ha il seguente titolo: Le molecole dei viventi.

21 gennaio 2007

Il futuro di Ilya Prigogine

Ilya Prigogine
Il futuro è già determinato?
Introduzione di Eliano Pessa

Pagine: 96 - Prezzo: € 8.50
ISBN: 8883230523 - Anno di pubblicazione: 2003

Di Renzo Editore

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Dopo aver discusso i problemi fondamentali della scienza del nostro tempo e di alcuni concetti filosofici, a partire dalla controversia tra Eraclito e Parmenide, Ilya Prigogine lancia un messaggio di grande speranza: il futuro non è determinato. Contrariamente a quanto lascia supporre la globalizzazione e l'apparente massificazione della società attuale, il comportamento individuale si avvia a diventare sempre più il fattore chiave che regola l'evoluzione del mondo e della società. Un messaggio, questo, che va direttamente contro quelli più diffusi, implicitamente o esplicitamente, dai mezzi di comunicazione di massa: l'importanza delle azioni individuali, infatti, implica la riflessione di ognuno sulle responsabilità che ci si assume quando si agisce o si prende una decisione. E questa responsabilità è associata ad una autonomia di pensiero e ad una analisi critica di mode, costumi, idee preconcette, ideologie, imposti dall'esterno: esattamente il contrario di quello che desiderano coloro che vorrebbero renderci "perfetti consumatori" in un mondo dominato solo dal denaro. Contrastare questa spinta verso la cancellazione della libertà di pensare con la propria testa è ormai un imperativo se si vuole salvare la società umana e il nostro pianeta da catastrofi che ormai appaiono sempre più vicine e (purtroppo quelle sì) irreversibili. Questo libro fornisce un piccolo, discutibile, ma prezioso contributo in tale direzione.
Ilya Prigogine, scomparso nel 2003, è nato a Mosca il 25 gennaio 1917. Dal 1929 dirigente dell'Istituto Internazionale di fisica e chimica Solvay e direttore del Centro di meccanica statistica dell'Università di Texas a Austin. Nel 1977 ha ricevuto il Premio Nobel per la chimica, grazie ad una teoria termodinamica applicata ai sistemi complessi.

Clive Granger e l'economia


Clive Granger
Economia di pace, economia di guerra

Pagine: 96 - Prezzo: € 10.50
ISBN: 8883231562 - Anno di pubblicazione: 2006

Di Renzo Editore

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La moderna macro-economia è vasta, diffusa, e difficile da definire, da misurare e da controllare. Gli economisti tentano di costruire modelli che si approssimano alla realtà, dotati di proprietà importanti tali da renderli utili per la determinazione dell’impatto di politiche alternative o delle implicazioni a lungo termine di nuove istituzioni. Ma questi dati vanno trattati con un certo grado di incertezza, ed è qui che entra in gioco il concetto di coin-tegrazione, introdotto dall’econometrista Clive W.J. Granger, che rende le proprietà previsionali potenzialmente più utili.
Clive W.J. Granger è professore emerito della University of California a San Diego. I suoi principali contributi riguardano la relazione tra diverse variabili finanziarie ed economiche nel tempo, conducendo a nuovi sviluppi in statistica e in econometria.
Nel 2003 è stato insignito del Premio Nobel per l’economia insieme a Robert Engle.

Martin Perl e la Fisica delle particelle


Tante domande, qualche risposta
Cinquant'anni di fisica delle particelle elementari

Pagine: 104 - Prezzo: € 11.00
ISBN: 8883231597 - Anno di pubblicazione: 2006
Note: traduzione di Claudia Bonadonna ed Eliano Pessa

Di Renzo Editore

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Da oltre cinquant’anni Martin Perl conduce ricerche sperimentali nel campo della fisica delle particelle elementari, la scienza che studia la natura primaria della materia, dell’energia e delle forze, che investiga il mondo subatomico. In questi cinquant’anni si è accumulato un sapere enorme e molte domande hanno trovato risposta. Ma non tutte, anche perché la conoscenza acquisita finora ne ha sollevato di nuove.
In questo libro Perl ci illustra le risposte finora ottenute nella fisica delle particelle elementari, le domande che ci si continua a porre e in che modo viene condotta la ricerca in questo campo della fisica.
Martin L. Perl, fisico americano di origine polacca, ha insegnato all’Università del Michigan, prima di approdare allo SLAC, il Centro per l’Acceleratore Lineare di Stanford. Nel 1995 è stato insignito del Premio Nobel per la sua scoperta del tau-leptone.

05 gennaio 2007

Che forza quei quark


Per la maggior parte del pubblico televisivo italiano, “quark” è l’oscuro titolo di una fortunata trasmissione di divulgazione scientifica. Per i letterati, è una parola inventata da James Joyce in “Finnegans Wake”, nella frase «three quarks for Muster Mark»: probabilmente come storpiatura di “quart”, “quartino”, visto che il libro descrive il sogno di un proprietario di pub. Per i fisici, infine, “quark” è il nome assegnato da Murray Gell-Mann, premio Nobel nel 1969, ai costituenti fondamentali della materia al livello della fisica quantistica: un analogo, cioè, degli atomi per la fisica atomica o delle molecole per la chimica. La scelta del nome è dovuta al fatto che neutroni e protoni sono appunto costituiti da tre “quark”, di tre “colori” diversi (chiamati rosso, verde e blu, benché si tratti in realtà piuttosto di un tipo di carica elettrica). A causa della presenza di questi “colori”, la teoria che regola il comportamento quantistico dei quanti si chiama “cromodinamica quantistica”, abbreviata QCD, e uno dei suoi aspetti più misteriosi è il cosiddetto “sconfinamento”: il fatto, cioè, che i “quark” non si possono mai osservare isolatamente, perché sono tenuti insieme da una forza nucleare che ha la strana proprietà di crescere all’inverosimile quando essi cercano di allontanarsi, e di diminuire fino praticamente ad annullarsi quando invece essi stanno vicini. Lo scopritore della QCD è David Gross, che nel bel monologo-intervista “L’universo affascinate” (Di Renzo Editore, pp 75, € 9,50) narra come è arrivato a formularla insieme al suo studente Frank Wilczek, in un’impresa intellettuale che ha meritato loro il premio Nobel nel 2004.Da leggere e meditare, per capire cosa fa e come si fa la scienza.

L’espresso, 11 gennaio 2007, pag. 103
Di Piergiorgio Odifreddi

02 novembre 2006

La forza colorata dei quark

A tre americani, David Gross, David Politzer e Frank Wilczek, il Nobel per la fisica 2004. Le loro ricerche rappresentano una tappa «di decisiva importanza per la nostra comprensione di come funzioni una delle forze fondamentali della natura, quella forza che lega i pezzettini più piccoli di materia - i quark»

Tocca di nuovo alla scienza d'oltreoceano. Ancora una volta sono gli americani a vincere il Nobel per la fisica, e ancora una volta sono tre uomini: dal 1901 a oggi sono solo due le fisiche ad aver vinto il premio, la prima fu Marie Curie, nel 1903, l'ultima risale al 1963. Non che le biologhe, che pure rappresentano il 60% della forza lavoro oggi, se la cavino meglio: l'ultima prima di Linda Buck premiata lunedì era stata, nel 1995, Christiane Nüsslein-Volhard. I laureati di ieri sono David Gross (che lavora all'Istituto di fisica teorica a Santa Barbara ed è anche presidente del comitato scientifico internazionale della Sissa di Trieste), David Politzer (Caltech di Pasadena) e Frank Wilczek (Mit di Boston). Ed è un premio tutto teorico quello assegnato ieri dalla reale accademia delle scienze svedese. Un fatto non troppo comune per un riconoscimento che solitamente valorizza le ricerche sperimentali rispetto a quelle teoriche. Un premio, dice la motivazione, a ricerche «di decisiva importanza per la nostra comprensione di come funzioni una delle forze fondamentali della natura, quella forza che lega i pezzettini più piccoli di materia - i quark». Tutto chiaro?

In effetti non è semplice districarsi fra i meandri di quello che qualcuno ha definito lo zoo delle particelle elementari: un elenco interminabile di nomi e sigle che indicano tutte le particelle che, nell'ottica del cosiddetto Modello standard della fisica delle particelle, dovrebbe dare una visione unificata e d'insieme di tutte le forze della natura, cioè della fisica fondamentale.

La forza di interazione forte, oggetto degli studi dei tre fisici, è una delle quattro forze fondamentali della natura, ed è quella che in sostanza tiene assieme ciascuno dei mattoni fondamentali del nucleo dell'atomo (protoni e neutroni), costituiti per l'appunto da tre quark, e i protoni e i neutroni stessi fra di loro. Le altre tre forze sono quella di gravità, studiata in senso moderno per primo da Newton, e di cui tutti abbiamo esperienza empirica; la forza di interazione debole (quella alla base dei processi di decadimento radioattivo e quindi ad esempio del brillare delle stelle), per il cui studio, tra gli altri, ha ottenuto il Nobel l'italiano Carlo Rubbia; e la forza elettromagnetica (alla base di quasi tutti i processi macroscopici che conosciamo: attrito, elettromagnetismo, ma anche l'impossibilità di passare attraverso le pareti), studiata da Maxwell nel secolo scorso.

Ciascuna di queste quattro forze ha caratteristiche diverse: la forza di gravità, ad esempio, agisce sulle lunghe distanze, anche se è molto più debole della forza elettromagnetica (provate a confrontare quanto una moneta di ferro venga attratta da un magnete con quanto non lo sia da un oggetto non magnetizzato delle stesse dimensioni), che a sua volta è molto più debole della forza di interazione forte (per l'appunto) che tiene legati fra di loro oggetti con la stessa carica (come i protoni) ma che agisce solo su distanze microscopiche.

Quello che i tre fisici hanno studiato è il meccanismo di funzionamento della forza forte (anche chiamata forza di colore, dal nome che convenzionalmente si dà alla cosiddetta «carica di colore» dei quark: rosso, blu o verde, che nulla ha a che fare con qualsiasi cosa possa essere definito «colore» nel senso comune del termine). Grazie ai calcoli che i tre fisici, allora giovanissimi (Wilczek e Politzer non erano avevano ancora il dottorato) nel 1973 pubblicarono su Physical Review Letters (in due articoli separati), il meccanismo che consentiva ai quark di essere legati fra di loro cominciò a diventare più chiaro. Uno degli aspetti della complessa teoria (basata su una funzione matematica chiamata funzione beta) era che i portatori della forza debole (detti «gluoni», dalla parola glue, cioè colla, dal ruolo analogo a quello dei fotoni nel caso della luce) interagivano sì con i quark, per permettere loro di essere legati, ma anche fra di loro. E di conseguenza, secondo la teoria, più vicini sono i quark (e i gluoni), più debole è l'interazione fra di loro. Ma i quark si avvicinano fra di loro all'aumentare dell'energia, e così, secondo i fisici, la forza dell'interazione diminuisce con l'energia. Questa proprietà è stata battezzata «libertà asintotica» (una componente fondamentale di una teoria quantistica denominata «cromodinamica quantistica») e, come conseguenza, ha quello che i risultati sperimentali già dicevano: un quark non può essere allontanato da un nucleo atomico. E' proprio come se i quark fossero collegati tra loro da un elastico che più viene tirato e più tende ad avvicinare le particelle.

Queste ricerche premiate con il Nobel, ha commentato Roberto Petronzio, direttore dell'Istituto nazionale di fisica nucleare, «segnano la svolta fondamentale nell'interpretazione corretta delle interazioni tra i quark e permette oggi di fare previsioni accurate delle loro collisioni alle future energie dei collisionatori adronici, come Lhc, l'acceleratore in costruzione al Cern di Ginevra». E che sarà in grado di simulare le condizioni dell'universo primordiale: quando tutte e quattro le forze, secondo il modello standard, a energie così elevate erano «unificate», cioè facce della stessa medaglia.

Qualcuno pensa che, raggiunto l'obiettivo dell'unificazione, si arriverà alla fine della fisica. Ma Silvio Bergia, docente di relatività a Bologna, ammonisce: «Chi ha predicato nella storia la fine della scienza è sempre stato smentito dopo pochi anni. Anche la cosiddetta Teoria del tutto, da cui siamo comunque lontani, non sarà la fine della fisica. Per fortuna».

Nelle prime dichiarazioni rilasciate, il neo Nobel Wilczek ammette: «Non è stata una sorpresa fino in fondo. Un po' me l'aspettavo. Già allora, anche se ero così giovane, ero sicuro che i miei risultati fossero corretti».

David J. Gross ha pubblicato L’universo affascinante con Di Renzo Editore.


25 ottobre 2006

Il mondo è complesso come un broccolo

Anche i broccoli possono essere utili per spiegare la fisica. Ne sanno qualcosa i molti intervenuti al "caffè scientifico" con Marco Bianucci, Giorgio Parisi e Stefano Zapperi, nella mattinata di domenica 6 novembre all'Histoire Café Garibaldi. I tre fisici, appollaiati su altrettanti sgabelli a dominare una platea colorata e attenta, hanno infatti affrontato il tema della teoria della complessità, cercando di rispondere alla domanda del titolo: "Il mondo è complesso?".

Il protagonista indiscusso è Giorgio Parisi, ordinario di Teoria quantistica alla Sapienza e già candidato al Premio Nobel: «credo che uno dei motivi per cui non gliel'abbiano ancora dato», commenta Bianucci, che si ritaglia il ruolo di moderatore, «sia che ha scritto così tanto da averli spiazzati».
Quando il fisico romano ha cominciato a indagare la complessità, Stefano Zapperi (classe 1970) aveva otto anni: «Nella complessità ci sono nato», commenta. Ma non è solo un interesse "generazionale": «credo che l'aspetto più interessante di questa teoria sia la sua interdisciplinarietà. I sistemi complessi ci circondano». Bianucci è d'accordo: «se ne parla tanto perché lo studioso da Galileo in poi si era concentrato sul particolare, cercando di isolarlo dal sistema. Oggi abbiamo riscoperto che le cose non stanno così. Ci sono alcuni sistemi il cui comportamento è dipendente dalle relazioni fra le parti che li costituiscono».
Naturalmente vi sono ancora ampi settori in cui la teoria della complessità sta muovendo i primi passi: «le teorie non escono vestite di tutto punto come Atena dalla mente di Giove», ammonisce Parisi, «c'è tutto un lavoro di "lucidatura"». E ci sono anche dei limiti. «Einstein», ricorda sorridendo il fisico romano, «diceva che per spiegare dei dati sperimentali vanno usate schematizzazioni il più semplici possibili, ma non più semplici di così».

Fra i tanti possibili ambiti di applicazione, c'è quello della fisica dei terremoti: «il terremoto non è altro che una frattura della crosta terrestre», sintetizza Zapperi, «e come ogni altra frattura produce determinati rumori. Ecco, ci sono proprietà statistiche del segnale rumoroso che sono simili in molti sistemi. Cambia solo la scala».

Il punto della variante di scala è uno dei noccioli della discussione. Parisi esemplifica la materia con un paragone vagetale: «avete presente un broccolo? È formato da una struttura piramidale, ed ogni piramide è formata a sua volta da altre piccole piramidine, e via così. È un tipico esempio di variante di scala... e fra l'altro mi pare anche che sia la stagione giusta».
La variante di scala non è l'unica dipendenza che lega i differenti sistemi, e Zapperi fornisce altri due esempi: «ci sono sistemi che dipendono dal volume, come quando bollo l'acqua ed ho bisogno di più o meno calore a seconda di quanto liquido ho nella pentola. Altri hanno una dipendenza logaritmica, come la frattura dei materiali».

Dopo soli venti minuti di conversazione, cominciano subito le numerose domande di un pubblico seduto in ogni angolo disponibile e che ha molto apprezzato l'onestà intellettuale degli intervenuti, soprattutto su temi spinosi come il rapporto fra libero arbitrio e complessità. «Noi fisici ci occupiamo di cose semplici», si scusa Zapperi, «anche se il rischio della complessità è che si diventa rapidamente tuttologi, non mi sento di dar risposte».
Altro tema difficile, quello del rapporto fra complessità e scienze sociali. Il tono di Parisi si indurisce un po': «quello delle scienze sociali è un campo estremamente delicato. Se una teoria sbagliata finisce in mano ai politici può essere pericoloso. Un esempio classico, e sgradevole, è quello della sociobiologi, che cerca di spiegare i comportamenti sociali a partire da quelli biologici». In una certa misura si può anche leggere la storia in questo modo, «ma utilizzare la sociobiologia per giustificare la disuguaglianza fra gli uomini mi pare molto pericoloso», conclude Parisi. È possibile prevedere l'evoluzione, modellizzandola? «Questa è una domanda che resterà sempre senza risposta», mormora Bianucci. «Per ora i fisici hanno usato modelli stilizzati che non permettono nessuna previsione», ribatte Parisi.

Il fuoco di fila delle domande non si attenua. Una, due, anche tre per volta. «È come un quiz! Scelgo la terza...», si diverte Zapperi. Lo scienziato galileiano è ancora adeguato allo studio della complessità? «Il metodo è ancora valido», conferma Bianucci. Zapperi è d'accordo, «solo che non cerchiamo più un valore uguale ma un tipo di fluttuazione uguale».

Una dei portati della teoria della complessità è che ha reintrodotto le "scuole di pensiero" nella fisica: c'è chi la difende e c'è chi la attacca, come la rivista Scientific American che insinua di non aver ancora visto risultati concreti dalla sua applicazione. «Non è vero», risponde secco Bianucci, che si dimostra comunque contento della divisione in "scuole". Con un "però": «la discussione entra nel vivo se danno cento miliardi per finanziare un acceleratore di particelle e quando servono a me cento milioni per la ricerca non li danno». Caldi applausi.

«Le scuole compaiono sempre quando ci sono teorie nuove», commenta accomodante Parisi, portando l'esempio della meccanica quantistica, che fu messa in dubbio per trentacinque anni: «Planck, il suo fondatore, amava dire che "le nuove teorie si affermano non perché i sostenitori delle vecchie si convincono, ma perché muoiono"». Nel salutare il pubblico, i tre consigliano di andare a vedere la mostra Semplice e complesso a Palazzo Ducale: «è bellissima», aggiunge Parisi, «e dà una sensazione quasi tattile della complessità di molti sistemi».

Giorgio Parisi ha pubblicato La chiave, la luce e l’ubriaco con Di Renzo Editore.

20 ottobre 2006

Federico Capasso e il premio Nobel

Egr. Di Renzo Editore,

Ho letto il libro di Federico Capasso e poi ho cercato in internet altre informazioni sull'autore. Ho scoperto che qualcuno lo ha proposto per il premio Nobel.

Io non sono uno scienziato ma, per le cose che ha fatto Federico Capasso e per le implicazioni che la sua scoperta riguardante il laser a cascata quantica, credo possa meritarselo per davvero questo benedetto Premio Nobel.

La cosa che mi sorprende è che nessuno si interessa più di quei scienziati che per diverse ragioni vanno all'estero.
Mi fa piacere che la sua casa editrice vada in cerca di questi personaggi. Coma ha fatto d'altronde anche per Carlo Rovelli, per Francesco Paresce e forse anche per qualche altro (non ho letto tutti i libri che lei ha pubblicato).

Le faccio tanti auguri e spero che possano dare un premio anche a lei.
Cordiali saluti
M. Persico
Bologna 17.10.06

13 ottobre 2006

Il Premio Nobel a un Italiano?

Ho trovato il primo libro divulgativo di Giorgio Parisi, La chiave, la luce e l'ubriaco (Di Renzo Editore), molto interessante. Si capisce subito che si muove su un livello alto della conoscenza della materia: bastano due parole e si entra immediatamente nel modo fantastico della fisica. Proprio come Enrico Fermi con il suo piccolo libro sulla Termodinamica. Insomma, chi conosce a fondo l'argomento ci offre il distillato senza necessità di arricchire la comunicazione per nascondere incertezze e ignoranza.

Ho anche appreso che Giorgio Parisi è uno dei candidati al Premio Nobel. Sarebbe fantastico, anche perché è uno dei pochi che ha deciso di restare in Italia, senza rimpianti, tirandosi su le maniche e mettendosi a lavorare con i pochi mezzi a disposizione.

Complimenti a questo genio della fisica. Speriamo che sia di esempio a tanti giovani che vogliono entrare nello stesso mondo.

20 settembre 2006

Morto Max Perutz: scoprì la struttura dell’emoglobina



Lo scienziato Max Perutz, Nobel per la chimica nel 1962, è morto nel febbraio 2002 a Cambridge all’età di 87 anni.

Max Ferdinand Perutz nacque a Vienna il 19 Maggio 1941. Iscritto all’Università di Vienna nel 1932, indirizzò il suo interesse verso la chimica organica, in special modo verso il lavoro svolto da Sir F. G. Hopkins a Cambridge nel campo della biochimica organica. Per tale ragione si recò nel 1936 presso il Cavendish Laboratory di Cambridge per la sua tesi di Ph.D. Le vicende politico-militari che si abbatterono in Europa in quegli anni, colpirono anche la sua famiglia che si vide espropriata di ogni bene e costretta all’esilio. Per sua fortuna, grazie al contributo economico elargito dalla Fondazione Rockefeller, riuscì ad ottenere l’incarico di “research assistant” di Sir Lawrence Bragg, che attraverso alcune interruzioni, mantenne fino al 1945. In quell’anno, infatti, divenne “Research Fellowship” presso le Imperial Chemical Industries. Nel 1947 ottenne l’incarico di guidare il “Medical Research Council Unit for Molecular Biology”, responsabilità che mantenne fino al 1962, anno in cui fu nominato “Chairman of the Medical Research Council Laboratory of Molecular Biology”.

Il lavoro scientifico di Perutz sulla struttura dell’emoglobina nacque sullo spunto di un colloquio avvenuto con F. Haurowitz a Praga, nel Settembre 1937.
In quegli anni i fisici avevano definito delle nuove tecniche d'indagine, utilizzando la capacità dei raggi X, in modo da investigare la struttura spaziale di molti semplici cristalli. L'idea di Perutz e di un gruppetto d’altri scienziati fu di utilizzare la stessa tecnica, per comprendere la struttura di una molecola complessa come una proteina. Il tutto con gli strumenti di allora e soprattutto con i calcolatori di allora.

Da G. S. Adair ottenne i primi cristallini di emoglobina, Bernal e I. Fankuchen gli mostrarono come ottenere delle figure di diffrazione dai raggi X e la loro interpretazione. Insieme, nel 1938, pubblicarono un primo lavoro sulla diffrazione dei raggi X ottenuti da un cristallo di emoglobina.

Per Di Renzo Editore Max Perutz ha pubblicato Le molecole dei viventi.


12 settembre 2006

L’universo affascinante


Di Renzo Editore riprende le pubblicazioni dopo la pausa estiva con l’uscita di L’universo affascinante di David J. Gross, fisico americano vincitore del Premio Nobel per la fisica nel 2004.

Gross ci racconta gli esperimenti e la collaborazione con il suo team che gli hanno permesso di scoprire la libertà asintotica nella cromodinamica quantistica e le sue fondamentali implicazioni. In particolare la QCD ha permesso di investigare la storia dell’Universo nei suoi primi momenti: prima di essa non si riusciva a risalire se non a duecentomila anni da questo evento che ha dato origine all’Universo.

Il testo è arricchito da un illuminante glossario (una novità già presente da qualche tempo) che spiega ai non addetti ai lavori i termini scientifici principali e presenta i protagonisti storici della fisica quantistica.

Intanto il 2006 si profila come l’anno dei Nobel per Di Renzo Editore. Dopo Arno Penzias e David J. Gross, sono in preparazione dialoghi con Clive W.J. Granger, premio Nobel per l’Economia, Frank Wilczek e Martin Perl, entrambi Premi Nobel per la Fisica e Michael F. Atiyah che il Premio Nobel per la Matematica non l’ha vinto solo perché non esiste, ma si è aggiudicato l’Abel Prize, considerato da tutti il suo equivalente.

11 settembre 2006

I libri di Giordano Bruno

Solo di recente ho scoperto la casa editrice Di Renzo Editore e sono rimasto sorpreso per la qualità delle sue pubblicazioni, tra le quali annovera anche lunghe interviste a scienziati di fama internazionale e Premi Nobel. Scorrendo poi il catalogo, la cosa che mi ha sorpreso ancora è l'aver individuato una serie di libri di Giordano Bruno, tradotti da un signore di Pescara il cui nome è Claudio D'Antonio. Mi è bastata la lettura di poche pagine per apprezzare lo stile e la profonda conoscenza dell'opera del Bruno da parte di D'Antonio. Insomma: una sorpresa nella sorpresa.

Complimenti.

Carlo Contin

I libri di Giordano Bruno editi da Di Renzo Editore sono:

Il primo libro della Clavis Magna

Il quarto libro della Clavis Magna

Il secondo libro della Clavis Magna

De Umbris Idearum

L’incantesimo di Circe

28 agosto 2006

Harold Kroto a Trieste


Harold Kroto parla di «Architettura nel nanospazio» all’Area Science Park


Era difficile incappare in una congiunzione astrale più
nefasta di quella che oggi pomeriggio, alle 17, in Area Science Park, porterà Harold Kroto, premio Nobel per la chimica nel 1996, a incontrare ricercatori e appassionati di scienza triestini proprio in contemporanea alla partita degli azzurri ai Mondiali di calcio. Ma dietro al singolare gioco della (mala)sorte – assolutamente imprevedibile lo scorso ottobre, quando venne fissato questo giro di conferenze di Kroto tra Basilea e Zurigo, Milano e Trieste – si profila quasi uno scherzo beffardo. Perché la molecola alla quale Sir Harold Kroto deve il Nobel e la sua notorietà anche fuori dell'agone scientifico è il «fullerene»: ovvero una molecola la cui struttura spaziale è identica a quella d'un pallone di calcio, di quelli in cuoio e con le cuciture a mano ormai introvabili dopo l'invasione dell'hi-tech nello sport.

E d'altra parte il fullerene è tuttora familiarmente chiamato dagli specialisti con il nomignolo «buckyball», in relazione proprio alla sua forma a palla. E altri l'hanno battezzato «soccerene», da «soccer», come gli americani chiamano il nostro calcio.

«È vero», conferma Sir Harold via e-mail. «Ma io fin dall'inizio, vent'anni fa, avevo preferito chiamarlo un nome più creativo. Fullerene è infatti l'abbreviazione di ”buckminsterfullerene”, dal nome dell'architetto americano Buckminster Fuller, il padre delle cupole geodetiche, così simili a questa molecola». È solo uno dei tanti casi di interdisciplinarietà che ruotano attorno a questo scienziato di vastissimi interessi, che porta con baldanza i suoi 67 anni. Inglese di origine tedesca (il nome originario dei genitori era Krotoshiner), ha studiato all'Università di Sheffield, poi ha lavorato in Canada, a Ottawa, e negli Stati Uniti, ai mitici Bell Laboratories in New Jersey, prima di iniziare la carriera accademica nel 1967 all'Università del Sussex, a Brighton. E ora Kroto insegna anche al Dipartimento di chimica e biochimica della Florida State University. Sir Harold scoprì la molecola che gli avrebbe cambiato la vita intorno al 1985, quando lavorava sull'identificazione al radiotelescopio delle molecole presenti nelle atmosfere stellari e nelle nubi interstellari. Trovò così questa struttura superstabile con 60 atomi di carbonio (spesso indicata semplicemente come C60), costituita da 12 pentagoni e 20 esagoni, in cui ciascun pentagono è circondato da cinque esagoni. Una nuova inattesa forma cristallina del carbonio, che andava ad aggiungersi alla grafite e al diamante (e a un paio di altre forme rarissime).

Quando Kroto, nel 1991, si mise a lavorare assieme ai colleghi Robert Curl e Richard Smalley per ottenere la molecola in laboratorio, quaggiù sulla Terra, il gioco era fatto. La rivista «Science» elesse il fullerene «molecola dell'anno» e nel 1996 arrivò il premio Nobel per tutti e tre. Poi, a stretto giro di tempo, ecco il primo spin-off dei fullereni: i nanotubi di carbonio, fogli di grafite avvolti su se stessi in tubicini di pochi milionesimi di millimetro.

Dispositivi su scala microscopica che hanno aperto la strada alla rivoluzione nanotecnologica. Racconta Sir Harold: «Quando trovammo il C60 nello spazio, sapevo che si trattava di una scoperta importante, e quando riuscimmo a ottenerlo in laboratorio e potemmo analizzarlo fu chiaro che per la chimica si era aperta una porta completamente nuova. C60 è una icona perfetta non soltanto per le nanoscienze, ma anche perché dimostra che non si può mai prevedere da dove salteranno fuori le scoperte più importanti. È una lezione per chi pensa che si possano pianificare le scoperte e finanziare solo le ricerche promettenti. Le cose non funzionano quasi mai in questo modo!». E ancora: «Questa molecola è diventata un simbolo per la nanoscienza e la nanotecnologia anche perché si tratta di una molecola di grandi dimensioni, dalla struttura elegante, dotata di proprietà uniche. In più, da queste ricerche hanno avuto origine i nanotubi di carbonio, da cui ci attendiamo applicazioni rivoluzionarie nell'ingegneria civile ed elettronica».

Proprio sulla rivoluzione delle tecnologie dell'infinitamente piccolo parlerà oggi Harold Kroto in Area, al Centro congressi, nell'ambito della serie di incontri con i Nobel.

«Architettura nel nanospazio» il titolo della sua relazione, che verrà introdotta da Maria Cristina Pedicchio, presidente di Area Science Park, e preceduta da un intervento di Dante Gatteschi, docente di chimica generale e inorganica all'Università di Firenze. Per chi riesce a resistere alle lusinghe del pallone da calcio e gli preferisce il «pallone» di Sir Harold, ricordiamo che anche in questa occasione è stato allestito un servizio gratuito di bus-navetta che dalla Sala Tripcovich porterà fino all'Area, con partenza alle 15.50 e fermate lungo il percorso (per informazioni: 040 362636). Ma accanto al Kroto guru della nanotecnologia c'è anche il Kroto che fonda il Vega Science Trust per la produzione di film scientifici per la Bbc, c'è il Kroto grafico e designer che ha al proprio attivo decine di copertine e poster. Un'attività che in lui non è mai disgiunta da quella scientifica: «Mi piace la bellezza delle forme, la loro eleganza. Si tratti di opere grafiche, di quadri, di sculture, di fotografie. Questa bellezza e questa eleganza fanno parte di me. E, credo, anche della mia scienza».

Di Renzo Editore ha pubblicato Molecole su misura di Harol Kroto.